Il cappello di gianni

Sono le 16.30. Cade una pioggerellina finissima e sono in garage. Sto controllando la scorta che ho delle viti che uso per fissare i cancelli delle recinzioni nei pascoli. Suona la sirena, il “campanello” che ho all’ingresso della fattoria. Se non aspetto qualcuno non apro mai, ma questa volta faccio un’eccezione. È un camioncino nero, il conducente mi pare di conoscerlo. Entrato nel cortile non è chi pensavo ma lo conosco ugualmente. È Paolo. Dà una mano a degli indiani che hanno appena acquistato una grande stalla sul confine est della mia azienda.
“Guarda che ti sono scappate le mucche. Sono nei campi di Mita. Abbiamo provato a chiamarti in tanti per dirtelo, ma hai tutti i telefoni spenti.”
“Impossibile. Le mucche sono lì nei recinti ai Campi Nuovi” le indico con il dito “e i tre tori sono nei recinti sotto la strada fondovalle. Anche se fossero usciti da quelli elettrici che ho nel fiume, non attraverserebbero mai l’asfalto per arrivare fin da Mita, ne hanno il terrore”
“Non c’è nessuno che ha delle mucche al pascolo nei dintorni di km. Sono mucche rosse, sono sicuramente le tue”
“Va beh, vado a vedere”. Saluto Paolo, che se ne va. Butto il cappello marrone da cowboy che mi ha regalato Mirca – un ricordo di Gianni – nella Fiat Uno che uso per spostamenti come questo. E mi avvio.
Quattro km e sono nel cortile degli indiani. Un ragazzo sta fumando una sigaretta. Gli chiedo se ha visto delle mucche, e nel caso dove (i campi degli indiani sono grandissimi).
“Non so niente, sono un meccanico e sono qui per riparare un trattore. Devi cercare gli indiani.”
Lascio la Fiat Uno e mi incammino a piedi in mezzo ai tanti fabbricati. L’azienda è grandissima. Fu costruita una trentina di anni fa. Ospitava fino a 3.000 tori da carne. Finalmente li trovo, stanno mungendo. C’è il titolare, il più anziano. Le mucche saranno un centinaio. Frisone italiane, bianche e nere. Tutte senza corna.
“Si le mucche sono laggiù, nei campi che avevamo arato e poi non siamo riusciti a seminare.” Le indica con un dito attraverso il portone. “Prima che arrivassero è anche venuto uno a dire che c’erano delle mucche sulla Fondovalle. Pensava fossero nostre”.
“Ah, le vedo. Si, sono proprio i miei animali. Ma non sono mucche, sono i tre tori che erano nei recinti sotto la strada. Incredibile che siano arrivati fino a qui. È un problema per voi se li lascio lì qualche giorno, finché non capisco il modo di portarli via? Sono tre maschi abituati a stare da soli, selvatici. Hanno le corna appuntite, devo lasciargliele crescere per legge affinché possano, forse, difendersi meglio dai lupi. Io sono da solo, è una operazione impossibile riuscire adesso a spostarli da lì.”
“Nessun problema, è un campo che non usiamo”.
Mi dispiace comunque lasciare gli animali lì incustoditi così vicino alla strada. Potrebbero tornare giù e creare problemi a qualcuno. Mi incammino quindi verso di loro, distanti qualche centinaio di metri dalla stalla, tra l’erba alta e bagnata, con l’intenzione di provare a spostarli almeno qualche centinaio di metri più su. Continua a cadere una pioggia sottile, ma il cappello di Gianni fa egregiamente il suo lavoro. Nel frattempo telefono al mio amico Lorenzo, appena tornato dall’Albania. Gli spiego la situazione e la necessità l’indomani, o appena possibile, dell’aiuto di qualcuno per provare a spostare i tori fin dentro ai miei recinti. Lui è l’unico che forse potrebbe venirmi ad aiutare in quella che potrebbe essere una operazione abbastanza pericolosa. Ha avuto vacche anche lui per anni e sa come trattarle.
Arrivato vicino ai tori una decina di metri li trovo, come immaginavo, raggianti per l’abbondanza di erba fresca e tenera dove si sono accasati. Ma mi prende un po’ di paura: il più anziano dei tre, quasi due anni, si gira verso di me, mette in basso la testa e muove un piede come a scalciare. Un bruttissimo segnale. Non c’è alcun riparo dove rifugiarsi nel caso caricasse… Mi sposto di lato e lui si tranquillizza. Forse non mi hanno riconosciuto per via del cappello che indosso…. Aspetta che mi faccio riconoscere meglio…
“Biriii biriii.. biriiii… “. È il verso che faccio sempre ai miei animali quando li chiamo per spostarli in pascoli migliori.
Mi avvicino ancora un po’ e i tre tori rimangono tranquilli. Rimangono girati però con la testa verso di me, verso il basso, studiando ogni mio piccolo movimento. Per farli allontanare dalla strada devo fargli prendere la direzione opposta, verso monte. Stacco da terra una lunga erbaccia secca, mi sposto lateralmente a loro e gliela sventolo di fronte più volte. Riesco finalmente a farli girare, vado dietro al più anziano, quello che si era agitato appena ero arrivato, e gliela sbatto sulla schiena. Niente, non si muove. Mi guarda. Gli do una pacca sul sedere, niente, non si muove e mi guarda. Sono sempre molto preoccupato, sono animali agilissimi, velocissimi, uno scatto e mi incornerebbe. Ma ormai sono in ballo.
Mi sposto di lato mentre penso tra me “Fanculo, anche questa situazione pericolosa me le ritrovo grazie ai lupi, altrimenti se i tori potessi tenerli senza le corna non correrei quasi alcun pericolo” Picchio l’erbaccia sul sedere di uno dei più giovani. Questo non gradisce per niente e parte in avanti, seguito dagli altri. Li seguo pian piano. La terra lavorata e mai seminata, rinverdita naturalmente, è molto soffice. Gli animali sprofondano nel camminare alcune decine di cm. Questo mi tranquillizza un po’, farebbero fatica a correre veloci se volessero caricarmi.
Proseguiamo verso monte, i due più giovani davanti, il più anziano dietro, io a chiudere il gruppo. Per guidarli nella direzione giusta ogni volta che provano a dirigersi nella direzione sbagliata mi sposto di lato e agito l’erbaccia lunga che ho in mano.
In una ventina di minuti raggiungiamo la sommità del campo. Sono ormai a circa 500 metri dalla strada, potrei anche fermarmi qui. Questa era l’intenzione iniziale. Ma l’operazione di spingerli in avanti finora è riuscita, perché non provare a continuare? I miei recinti elettrici sono centocinquanta metri più su, oltre la grande frana e la boscaglia incolta. Se riesco a metterli li dentro, poi li porterò fino a casa successivamente. Lì c’è erba in abbondanza per le prossime settimane, è da aprile che non ci mando degli animali al pascolo.
I tori però sono perplessi. Mi guardano e sembrano dirmi “Che scherzo ci stai facendo? Perché dobbiamo continuare a salire su per del terreno dove non c’è niente, mentre in basso abbiamo lasciato un paradiso di erba?” Si girano verso valle e io penso “Ecco, adesso ripartono e tornano giù dov’erano, ho perso solo del tempo. Domani dovrò riprovarci chiamando qualcuno”. Si muovono con quella intenzione, mi paro davanti a loro, apro le braccia. Si spostano, provano da un’altra parte. Mi sposto rapidamente, li blocco allo stesso modo. Tre o quattro volte così, ogni volta provano a passare.
Rinunciano, si girano di nuovo verso monte e, incredibile a dirsi, si incamminano oltre un profondo fosso scavato dall’acqua superando una pendenza importante nonostante il terreno bagnato, scivolando più volte. Nel mentre decido una tecnica diversa: mi metto dietro solo ai due più giovani, che sono sensibili alle mie delicate “frustate” con l’erba secca, e il toro più anziano lo tengo dietro di me. Ho visto che lui tanto segue gli altri.
Ora la situazione del terreno però è quanto di più accidentato si possa immaginare. La frana, con le abbondanti piogge di questi giorni, si è rimessa in movimento. È tutto un susseguirsi di crepe profonde oltre un metro, finirci dentro con una zampa per loro – o con una gamba per me – vorrebbe dire farsi male vero. Proseguiamo una cinquantina di metri così, poi loro non ne vogliono più sapere: non sembra esserci una via di sbocco a quel sentiero. Si voltano di nuovo verso il basso, ricomincia la mia operazione di pararsi di fronte a loro per convincerli a mantenere la direzione verso monte.
Finalmente li convinco, superano un altro argine molto ripido e arrivano su uno stretto crinale oltre al quale c’è un fosso profondo una decina di metri. Il toro più anziano aspetta che si sia decisa una strada, poi pian piano ci raggiunge.
Proseguiamo su quello stretto crinale – con la grande frana sulla sinistra e il fosso profondo oltre dieci metri sulla destra – ancora per circa cinquanta metri. A sinistra termina infine la frana ed inizia ad esserci bosco, ma soprattutto ci sono cespugli spinosi. Sulla destra invece ancora il fosso profondo. La vegetazione si è infittita anche sul crinale, ormai si passa a fatica. Più volte i tori si fermano. Frustarli con l’erba secca non basta più. Sono dietro di loro, gli prendo in mano i testicoli e allora, facendo così, nonostante i cespugli, scattano in avanti. Devo fare questa operazione più volte.
Quando ormai si intravedono i miei recinti, mancano circa 30 metri al arrivo, il fitto dei rovi è però invalicabile. I due tori giovani si arrestano definitivamente, per farli proseguire non serve più nemmeno toccargli le palle. Il toro di due anni mi raggiunge, sento il suo muso toccarmi la schiena. Siamo in una situazione di stallo, sembra non esserci via di uscita se non tornare indietro tutti. E infatti i due tori giovani si guardano indietro con quella chiara intenzione…
Ma io non ci sto. Vedo davanti a me la soluzione del mio grande problema di riprendere quegli animali fuggiti, devo provarci fino alla fine. Mi sposto di lato rispetto ai tori giovani, avanzo tra i cespugli pestando i rovi e aprendoli con le braccia. Un metro alla volta raggiungo i miei fili elettrici. Li abbasso in terra staccandoli da diversi paletti affinché gli animali, se riesco poi a farli arrivare fino a lì, possano passare. E mentalmente mi preparo a raggiungere di nuovo i tori lateralmente, immaginando che nel frattempo siano tornati indietro, e ci sia bisogno di tanta determinazione per convincerli a ritornare su.
Ma miracolosamente non ce n’è bisogno: il toro più anziano ha superato i due più giovani, sta seguendo il mio sentiero, aprendosi un varco anche lui tra i rovi per raggiungermi. Lo stimolo a continuare. “Biiriiii… Biiriii… Biiriii… Biiriii…. Bravo, continua così. Biirii… Biiiriii… Biiriii…. “ Lui è più grosso di me, arranca a fatica, più volte deve rompere con forza dei rovi che lo bloccano. Ma finalmente mi raggiunge dentro ai miei recinti. I due tori giovani lo seguono passo passo. Se fosse stato un umano lo avrei abbracciato con tanto affetto, comunque stasera si è guadagnato un posto da monta nella mia fattoria per diversi anni futuri. Al macello andranno poi gli altri.
Sono tutto bagnato, a parte la testa sotto al cappello di Gianni. È ormai buio totale. Mi servirà ancora oltre mezz’ora per controllare che il recinto dove li ho messi sia tutto a posto, e non l’abbiamo steso a terra degli animali selvatici durante l’estate. Per poi tornare giù fino alla azienda degli indiani, dove mi aspetta la mia Fiat Uno del 1995. Ancora alcuni km di percorso a piedi. Ma ho una gioia nella riuscita dell’impresa – che avrei dato per impossibile – come poche volte ho provato nella mia vita.

Non sento né l’umidità addosso, né la fatica.
Ci sono soddisfazioni che non si possono comprare con Mastercard.
Chi vive “nell’agio” della città non lo potrà mai capire.

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